martedì 12 novembre 2013

EURO 2014!!

Il progetto EURO 2014 nasce su iniziativa del gruppo Giovani Democratici Toscana, con l’aiuto essenziale dell’Istituto Gramsci, ed è un progetto che ha come finalità quella di informare e sensibilizzare sui temi dell’Europa, in previsione delle elezioni europee che si svolgeranno nella Primavera del 2014.
Il percorso EURO 2014 si è fino ad oggi articolato in una serie di incontri e dibattiti ai quali hanno partecipato sia esponenti del mondo accademico, con docenti ed esperti delle Università di Firenze, Siena e Pisa, sia esponenti del mondo politico come Leonardo Domenici, ex sindaco di Firenze e oggi europarlamentare per il Partito Democratico.
Nei dibattiti sono stati toccati diversi temi che hanno analizzato la situazione europea attuale, le sue criticità e le possibili migliorie, dal punto di vista economico, istituzionale e storico/politico.
Scopo di questo documento è contribuire all’opera di sensibilizzazione e informazione sull’Europa.

Europa: confini e diversità culturali
Si può affermare a buon diritto che l’obiettivo a lungo termine dell’Europa sia quello di procedere con l’integrazione fino alla formazione di un'unica nazione europea.
Si può altresì affermare che la nascita di una nazione è impossibile fino a quando non esista a livello di popolazione l’idea o il sentimento di nazione europea. La nascita di questa idea è ostacolata fortemente dalle grandi differenze culturali esistenti in Europa in particolare per quelle esistenti tra lacosiddette Europa Occidentale e Europa Orientale. Si tratta di differenze che investono ogni ambito socio-culturale, a partire dalla storia più recente con una parte dell’Europa sotto l’influenza statunitense e l’altra sotto l’influenza sovietica con tutto ciò che consegue dal punto di vista dell’impostazione economica e dello sviluppo della società in generale. Ma sono anche differenze più risalenti nel tempo, con la religione cattolica-protestante predominante nell’Europa Occidentale e quella ortodossa nella parte Orientale.
Diverso è il modo in cui la storia viene insegnata nelle scuole, con personaggi che da una parte sono associati a pagine nere di storia, dall’altra sono considerati quasi eroi.
Una differenza esiste anche a livello mediatico con i media che sembrano considerare Europa solo quella costituita da Germania, Francia, Italia e “adiacenze” con un interesse scarso o nullo a tutti gli stati dell’Europa Orientale che pur fanno parte dell’UE.
Quest’ultimo punto ci porta anche a riflessioni più pratiche: nei primi anni 2000 il boom dei consensi in Austria di partiti di destra estrema portò ad una forte reazione da parte dell’Unione Europea; in anni più recenti il verificarsi di una situazione simile se non più grave in Ungheria non ha portato alla stessa reazione: è l’attuale debolezza europea oppure l’Ungheria è “meno Europa” dell’Austria? Per quanto a molti queste questioni possano sembrare di importanza secondaria la nascita del sentimento di nazione europea in tutti i popoli d’Europa potrebbe rappresentare la molla per far scattare a livello politico gli ingranaggi giusti per arrivare ad una maggiore unità europea, cosa che, come vedremo più avanti nel documento, avrebbe sicuramente enormi vantaggi economici e non solo.

Il PD e l’Europarlamento
Ad oggi il Partito Democratico costituisce un’anomalia all’interno dell’Europarlamento, in uno scenario dominato da grandi gruppi e partiti, in primis il Partito Popolare Europeo (PPE) e il Partito Socialista Europeo (PSE). Sono queste le due maggiori forze del parlamento europeo che rappresentano le due grandi anime politiche dell’Europa.
Da una parte troviamo il PPE, che nasce storicamente come il partito dell’alta borghesia europea di fede cattolica e protestante, oggi diventato la casa per tutti i partiti conservatori del continente rappresentando dunque l’area della destra e del centro destra.
Dall’altra parte troviamo il PSE che abbraccia tutti i partiti che in Europa affondano le proprie radici nel socialismo e nella socialdemocrazia e che rappresenta ad oggi tutto il fronte del centro sinistra e della sinistra moderata. In questo contesto il Partito Democratico si trova ad esistere come un’entità a se stante che agisce come un satellite del PSE, cioè lavora a stretto contatto con questo ma non ne fa parte. Si tratta di una situazione che comporta un grande svantaggio: il Partito Democratico può solo appoggiare le iniziative del Partito Socialista Europeo ma non ha voce all’interno del PSE stesso (si pensi alla recente scelta del PSE di proporre l’attuale presidente del parlamento europeo Martin Schulz come candidato unico alla guida della Commissione Europea: il PD ha potuto solo appoggiare la scelta ma non partecipare al dibattito interno al PSE che ha portato alla scelta di Martin Schulz).
In definitiva è una problematica che può e deve essere superata, anche perché sono molti i punti di contatto tra i due partiti in questione. Si è già parlato della stretta collaborazione tra PD e PSE favorita anche dalla formazione del Gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento Europeo (S&D), il gruppo parlamentare che riunisce nell’europarlamento PSE e PD; sono poi numerosi i leader del nostro partito che si sono espressi a favore dell’adesione al PSE, senza poi considerare come un partito che in Italia ha la giusta ambizione di rappresentare la sinistra e il centro sinistra non possa non far parte del partito che rappresenta la stessa area a livello europeo.
                                                                        
Inadeguatezza di un sistema
All’interno del mondo globalizzato, che vede ormai come principali attori economici e militari nazioni di dimensioni continentali quali gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India eil Brasile, l’attuale sistema politico dell’Unione Europea mostra sempre di più limiti e inadeguatezze, poiché ancora troppo dipendente dalle politiche nazionali degli stati membri.
I problemi che l’Europa deve affrontare sono problemi globali.
Il modo in cui questi problemi vengono affrontati si rivela sempre più inadeguato, a causa di un sistema politico complesso e inefficiente e allo stesso tempo non abbastanza centralizzato e autorevole da imporre politiche comuni in tempi brevi.
In effetti, l’Unione Europea, per come è attualmente organizzata, limita già i Paesi membri per quanto riguarda la propria sovranità governativa; questa limitazione però non va a favore delle decisioni dell’Europarlamento o di un governo europeo comunemente eletto da tutti i cittadini europei, ma a favore dei Paesi considerati “più responsabili”. Ciò genera una subalternità dei centri di potere continentali incapace di governare processi globali nell’interesse comune.

I costi della divisione
La mancanza di un governo unitario forte, capace di generare sinergie tra i Paesi membri, genera oltre ai costi della politica, anche altri costi altrimenti evitabili. Tra questi: un costo economico, dovuto a inefficienze di produzione e di mercato; un costo sociale, dovuto all’insostenibilità del welfare universale, e all’insufficienza di meccanismi di retribuzione sovrannazionali; costi relativi alla sicurezza, assurdi in quanto inseriti in un sistema inefficiente in termini di spese militari e forze armate nazionali singolarmente inefficaci di fronte ad un conflitto armato moderno; un costo istituzionale, dovuto al crescente grado di sfiducia che gli europei nutrono nei confronti dell’UE; un costo in tema di ricerca,dovuto al duplicarsi dei costi della ricerca portando avanti progetti paralleli, identici e non coordinati sviluppati dai Paesi membri.

Necessità di una politica monetaria unica
Di fronte all’inefficacia dell’attuale sistema politico sovrannazionale europeo, ancora troppo dipendente dai governi nazionali, la risposta non deve essere quella di ritornare alle sovranità nazionali, ma rafforzare il governo e le istituzioni di Bruxelles, metterle in primo piano e subordinare ad esse tutti i governi e le istituzioni nazionali, arrivando - in definitiva - alla creazione di un governo federale europeo. Per riassumere in un unico concetto: occorre diventare da Unione Europea a Stati Uniti d’Europa.
La debolezza principale che caratterizza l’attuale sistema dell’Unione Europea è la presenza di un sistema di politica monetaria ambiguo e unico nel suo genere. L’euro viene, infatti, distribuito dalla banca centrale al tasso di inflazione europeo mentre i debiti pubblici nazionali vengono contratti ai tassi di interesse nazionali. Questi ultimi sono però tenuti alti a causa di scarse valutazioni delle agenzie di rating riguardo la probabilità di insolvenza degli stati contraenti.
Proprio i tassi di interesse troppo alti a livello nazionale sono la causa della progressiva paralisi dei sistemi di welfarenazionali che si trovano impossibilitati a contrarre debito pubblico per rilanciare l’economia locale e per far fronte ai disagi sociali. Gli alti tassi di interesse nazionali diventano essi stessi un fattore di moltiplicazione del debito pubblico, con il rischio di farlo accrescere fino a livelli insostenibili, generando così una crisi economica dagli esiti potenzialmente letali, non solo per il singolo paese o per l’Europa, ma per tutti coloro che possiedono ingenti quote di titoli non solvibili. Uno scenario questo che genererebbe disastri a catena sul teatro finanziario globale e una recessione dai caratteri apocalittici.
Questo difetto sistemico può essere corretto accentrando totalmente la politica monetaria nelle mani della BCE; questa soluzione permetterebbe così di contrarre debito pubblico a livello europeo con un tasso di interesse più basso e sostenibile, dovuto al maggiore grado di fiducia che le principali agenzie di rating nutrono nei confronti della Banca Centrale Europea. Successivamente il debito contratto verrebbe distribuito dalle istituzioni politiche europee agli enti locali pubblici e ai privati in deficit dei singoli stati, seguendo parametri espressi dall’Europarlamento, voce di tutti i cittadini dell’Unione.
Qualsiasi politica di welfare che prescinda da questo passaggio non può che risultare fasulla e chiunque la promuova lo fa per ignoranza o in malafede.
Quando negli anni ’90 si formulavano i parametri del Trattato di Maastricht e si progettava l’unione monetaria si dava per scontato che fosse solo il primo passo verso l’unione politica federale. Negli anni successivi all’entrata in vigore dell’Euro, a causa di un periodo di crescita che stava attraversando l’Europa e l’affermarsi di governi di destra conservatori e populisti nei principali Paesi dell’Unione Europea, si arrestò il processo di integrazione poiché i governi nazionali pensavano che in fondo la situazione andasse bene così com’era. La crisi del 2008 e i successivi attacchi speculativi sui debiti sovrani dei Paesi considerati strutturalmente deboli da parte delle principali banche mondiali, ha evidenziato quanto in realtà questo sistema di cose risulti fragile e inadeguato.

La soluzione è l’Austerity?
La politica di Austerity proposta da Angela Merkel riflette l’opinione pubblica di gran parte dei tedeschi e dei Paesi del nord Europa. In questi Paesi il concetto di debito è sinonimo di quello di colpa e non è concepibile che i Paesi “colpevoli" debbano ricevere i loro soldi senza prima avere espiato le proprie colpe tramite politiche di tagli della spesa pubblica definite di “lacrime e sangue”.
Questa politica è allo stesso tempo immorale e pericolosa.Immorale perché il governo tedesco non ha diritto di dettare la linea di politica interna ad altri Paesi europei ugualmente sovrani. Pericolosa per almeno due buone ragioni. I cittadini dei Paesi in deficit perderanno fiducia nei confronti delle Istituzioni Europee, rispolverando antichi rancori nei confronti della Germania. Questo provocherebbe un’ulteriore divisione nel continente favorendo il consolidarsi di partiti estremisti anti-europei di stampo populista, che rischierebbero di pregiudicare il progetto europeo creando forti tensioni all’interno degli stessi sistemi democratici nazionali. Inoltre la contrazione dei consumi andrebbe a ridurre le stesse esportazioni tedesche, perlopiù rivolte all’interno dei confini europei. Il risultato finale per la Germania sarebbe di generare una decrescita che colpirebbe l’Europa intera, compresa se stessa.
Con i capitali risparmiati grazie a sinergie di sviluppo economico e scientifico e con quelli ottenuti grazie ad una potenziale emissione di titoli di stato europei da parte della BCE stessa (i cosiddetti Euro-bond), il governo europeo avrebbe fondi sufficienti per attuare politiche economiche istituzionalistiche di sviluppo efficienti ed efficaci, se dirette da istituzioni bene organizzate referenti al governo e dotate di una notevole autorità presso gli enti e i governi dei singoli Paesi.
Si potrebbe addirittura assistere ad un nuovo miracolo economico capace di fare recuperare all’Europa la centralità internazionale persa con le due guerre mondiali.
L’Europa Federale potrebbe diventare abbastanza ricca da promuovere una politica estera capace di fare fronte ai problemi che la riguardano con maggiore autonomia ed incisività, aumentando il proprio potere contrattuale per le importazioni di gas e combustibili fossili. Questo consentirebbe inoltre di attuare politiche di investimento nei Paesi del terzo mondo da cui provengono la maggior parte dei flussi migratori migliorando le condizioni di vita dei popoli Paesi coinvolti, ottenendo un’espansione della nostra sfera di influenza politica nel mondo in modo del tutto pacifico e riducendo il flusso migratorio che non potrà essere assorbito in eterno.      

Inefficienza dell’attuale sistema istituzionale.
Appare evidente che l’Europa non funziona.
Non funziona, in particolare, perché non funziona da un punto di vista politico-istituzionale.
E’ vero, i vari trattati che si sono succeduti e che hanno caratterizzato la storia dell’integrazione europea hanno il merito di aver permesso di creare e regolare rapporti di varia natura tra i paesi che via via si riconoscevano nella Comunità (che col trattato di Maastricht del 1992 diventa “Unione”).
Tuttavia non sono riusciti a dotare la stessa Unione di un’efficiente sistema istituzionale.
A tal fine è stato stipulato nel 2007 il Trattato di Lisbona, con il desiderio, espresso nel Preambolo, «di completare il processo avviato dal trattato di Amsterdam e dal trattato di Nizza al fine di rafforzare l'efficienza e la legittimità democratica dell'Unione nonché di migliorare la coerenza della sua azione».
I fatti dimostrano, però, che si è ancora lontani dall’avverarsi di tale desiderio.
Dal punto di vista dei contenuti, in realtà, il Trattato di Lisbona dimostra di voler definire meglio i poteri delle istituzioni europee per rafforzarne l’efficienza e la legittimità.
Il Trattato recepisce, in particolare, gran parte delle innovazioni contenute nella famosa Costituzione Europea approvata nel 2004 e mai entrata in vigore per la bocciatura francese e olandese.
Così, ad esempio, specifica meglio le ripartizioni delle competenze tra Unione e Stati membri, distinguendo tra competenze esclusive, concorrenti e di sostegno; afferma il principio di sussidiarietà, in base al quale l’Unione interverrà solo se gli obiettivi che essa persegue non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri; introduce due procedure di revisione dei trattati (una ordinaria e una semplificata) e la possibilità di recedere dall’UE.
Soprattutto, inoltre, il Trattato di Lisbona modifica alcuni aspetti istituzionali.
In particolare, il Consiglio Europeo è annoverato per la prima volta tra le istituzioni dell’Unione, attribuendogli la funzione di organo di indirizzo politico e dotandolo di un Presidente eletto ogni due anni e mezzo dai Capi di Stato o di Governo degli Stati membri.
Ancora di difficile inquadramento è, all’interno del Consiglio, la figura dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, una sorta di Ministro degli Esteri dell’Unione.
Al di là di questi aspetti (apparentemente solo) tecnici, bisogna domandarsi se l’Europa, così come  è congeniata, funzioni o meno.
La risposta non può che essere negativa.
Troppe sono ancora, infatti, le questioni rimaste aperte e che impediscono all’Unione di porsi in modo chiaro e competitivo sulla scena internazionale.
Il quadro a livello istituzionale è molto complesso: ai tre “classici” organi, il Trattato di Lisbona ha aggiunto, come detto, il Consiglio Europeo, attribuendogli funzione di indirizzo politico.
Se aggiungiamo a ciò la grande importanza che viene data ai Parlamenti Nazionali (inseriti stabilmente nelle procedure legislative dell’Unione), otteniamo un quadro assai complicato.
Tale quadro, da una parte rende più ponderate e controllate le decisioni ma dall’altra delinea un sistema consociativo, idoneo più ad ostacolare che a facilitare queste decisioni.
Collegata a tale problematica – e non meno importante – è quella relativa al potere di rappresentanza in seno all’Unione: chi rappresenta l’Europa?
Il Presidente del Consiglio Europeo? O quello della Commissione Europea? E perché non l’Alto Rappresentante?
Questo aspetto non viene chiarito, ed è chiaramente sintomatico di quanto siamo ancora lontani da una vera e propria Unione, per la quale non basta l’affermazione di una personalità giuridica unica ma è necessario fare in modo che tale personalità giuridica possa essere esercitata.
Siffatta questione si riflette inevitabilmente sulla politica estera dell’Unione, non bastassero i problemi che in questa prospettiva crea la divergenza tra il testo del Trattato, che riconosce la soggettività internazionale dell’Unione e l’istituzione di una figura incaricata di gestire la politica estera comune, e quello della Dichiarazione annessa al Trattato, che contiene una serie di precisazioni in difesa delle prerogative statali, prevedendo che le disposizioni del Trattato non toccano responsabilità e poteri di ciascuno Stato membro nella formulazione e gestione della propria politica estera e non pregiudicano le sue relazioni con Paesi terzi e organizzazioni internazionali.

Quale Europa vogliamo?
Arriviamo, così, alla “questione delle questioni”, alla problematica principale, che sta alla base di tutto: quale Europa vogliamo?
La risposta a questa domanda può seguire due opposte direzioni: da un lato vi è l’idea di un’Europa come istituzione confederale, intergovernativa e prevalentemente (se non esclusivamente) dedita alle questioni economiche; dall’altro vi è l’idea di un’Europa politica (e quindi non solo economica) e federale.
La natura attuale dell’Europa non sceglie nettamente nessuna delle due strade, mescolando elementi federali e confederali, integrazione e cooperazione, metodo sovranazionale e intergovernativo.
Appare fondamentale, dunque, eliminare tale ambiguità, così da poter dare veramente un senso ed un obiettivo all’integrazione Europea.

Se la risposta alla domanda “quale Europa vogliamo?” è il presupposto per poter veramente costruire qualcosa di efficiente ed efficace, presupposto di tale presupposto è la consapevolezza di essere Europa (per poter “volere” ci vuole consapevolezza di ciò che si vuole!).
Allo stato attuale tale consapevolezza ancora è debole, ed è solo con essa che si potrà costruire un’Europa che davvero non sia solo una regione geografica ma che costituisca un soggetto unico a tutti gli effetti.
Insomma: o l’Europa la facciamo, e la facciamo davvero, oppure siamo destinati a scomparire, schiacciati dall’implacabile incedere della storia.

I delegati dei GD Carrara ad Euro 2014,
Yuri Ceragioli
Sirio Genovesi
Luca Lorenzini.

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