Il progetto EURO
2014 nasce su iniziativa del gruppo Giovani Democratici Toscana, con l’aiuto
essenziale dell’Istituto Gramsci, ed è un progetto che ha come finalità quella
di informare e sensibilizzare sui temi dell’Europa, in previsione delle
elezioni europee che si svolgeranno nella Primavera del 2014.
Il percorso EURO
2014 si è fino ad oggi articolato in una serie di incontri e dibattiti ai quali
hanno partecipato sia esponenti del mondo accademico, con docenti ed esperti
delle Università di Firenze, Siena e Pisa, sia esponenti del mondo politico
come Leonardo Domenici, ex sindaco di Firenze e oggi europarlamentare per il
Partito Democratico.
Nei dibattiti
sono stati toccati diversi temi che hanno analizzato la situazione europea
attuale, le sue criticità e le possibili migliorie, dal punto di vista
economico, istituzionale e storico/politico.
Scopo di questo
documento è contribuire all’opera di sensibilizzazione e informazione
sull’Europa.
Europa: confini e diversità culturali
Si può affermare
a buon diritto che l’obiettivo a lungo termine dell’Europa sia quello di
procedere con l’integrazione fino alla formazione di un'unica nazione europea.
Si può altresì
affermare che la nascita di una nazione è impossibile fino a quando non esista
a livello di popolazione l’idea o il sentimento di nazione europea. La nascita
di questa idea è ostacolata fortemente dalle grandi differenze culturali
esistenti in Europa in particolare per quelle esistenti tra lacosiddette Europa
Occidentale e Europa Orientale. Si tratta di differenze che investono ogni
ambito socio-culturale, a partire dalla storia più recente con una parte
dell’Europa sotto l’influenza statunitense e l’altra sotto l’influenza
sovietica con tutto ciò che consegue dal punto di vista dell’impostazione
economica e dello sviluppo della società in generale. Ma sono anche differenze
più risalenti nel tempo, con la religione cattolica-protestante predominante
nell’Europa Occidentale e quella ortodossa nella parte Orientale.
Diverso è il
modo in cui la storia viene insegnata nelle scuole, con personaggi che da una
parte sono associati a pagine nere di storia, dall’altra sono considerati quasi
eroi.
Una differenza
esiste anche a livello mediatico con i media che sembrano considerare Europa
solo quella costituita da Germania, Francia, Italia e “adiacenze” con un
interesse scarso o nullo a tutti gli stati dell’Europa Orientale che pur fanno
parte dell’UE.
Quest’ultimo
punto ci porta anche a riflessioni più pratiche: nei primi anni 2000 il boom
dei consensi in Austria di partiti di destra estrema portò ad una forte
reazione da parte dell’Unione Europea; in anni più recenti il verificarsi di
una situazione simile se non più grave in Ungheria non ha portato alla stessa
reazione: è l’attuale debolezza europea oppure l’Ungheria è “meno Europa”
dell’Austria? Per quanto a molti queste questioni possano sembrare di
importanza secondaria la nascita del sentimento di nazione europea in tutti i
popoli d’Europa potrebbe rappresentare la molla per far scattare a livello
politico gli ingranaggi giusti per arrivare ad una maggiore unità europea, cosa
che, come vedremo più avanti nel documento, avrebbe sicuramente enormi vantaggi
economici e non solo.
Il PD e l’Europarlamento
Ad oggi il
Partito Democratico costituisce un’anomalia all’interno dell’Europarlamento, in
uno scenario dominato da grandi gruppi e partiti, in primis il Partito Popolare Europeo (PPE) e il Partito Socialista
Europeo (PSE). Sono queste le due maggiori forze del parlamento europeo che
rappresentano le due grandi anime politiche dell’Europa.
Da una parte
troviamo il PPE, che nasce storicamente come il partito dell’alta borghesia
europea di fede cattolica e protestante, oggi diventato la casa per tutti i
partiti conservatori del continente rappresentando dunque l’area della destra e
del centro destra.
Dall’altra parte
troviamo il PSE che abbraccia tutti i partiti che in Europa affondano le
proprie radici nel socialismo e nella socialdemocrazia e che rappresenta ad
oggi tutto il fronte del centro sinistra e della sinistra moderata. In questo
contesto il Partito Democratico si trova ad esistere come un’entità a se stante
che agisce come un satellite del PSE, cioè lavora a stretto contatto con questo
ma non ne fa parte. Si tratta di una situazione che comporta un grande
svantaggio: il Partito Democratico può solo appoggiare le iniziative del
Partito Socialista Europeo ma non ha voce all’interno del PSE stesso (si pensi
alla recente scelta del PSE di proporre l’attuale presidente del parlamento
europeo Martin Schulz come candidato
unico alla guida della Commissione Europea: il PD ha potuto solo appoggiare la
scelta ma non partecipare al dibattito interno al PSE che ha portato alla
scelta di Martin Schulz).
In definitiva è una problematica
che può e deve essere superata, anche perché sono molti i punti di contatto tra
i due partiti in questione. Si è già parlato della stretta collaborazione tra
PD e PSE favorita anche dalla formazione del Gruppo dell'Alleanza Progressista
dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento Europeo (S&D), il
gruppo parlamentare che riunisce nell’europarlamento PSE e PD; sono poi
numerosi i leader del nostro partito che si sono espressi a favore
dell’adesione al PSE, senza poi considerare come un partito che in Italia ha la
giusta ambizione di rappresentare la sinistra e il centro sinistra non possa
non far parte del partito che rappresenta la stessa area a livello europeo.
Inadeguatezza
di un sistema
All’interno
del mondo globalizzato, che vede ormai come principali attori economici e
militari nazioni di dimensioni continentali quali gli Stati Uniti, la Russia, la
Cina, l’India eil Brasile, l’attuale sistema politico dell’Unione Europea
mostra sempre di più limiti e inadeguatezze, poiché ancora troppo dipendente
dalle politiche nazionali degli stati membri.
I problemi che l’Europa deve affrontare sono problemi globali.
I problemi che l’Europa deve affrontare sono problemi globali.
Il modo in cui
questi problemi vengono affrontati si rivela sempre più inadeguato, a causa di
un sistema politico complesso e inefficiente e allo stesso tempo non abbastanza
centralizzato e autorevole da imporre politiche comuni in tempi brevi.
In effetti,
l’Unione Europea, per come è attualmente organizzata, limita già i Paesi membri
per quanto riguarda la propria sovranità governativa; questa limitazione però
non va a favore delle decisioni dell’Europarlamento o di un governo europeo
comunemente eletto da tutti i cittadini europei, ma a favore dei Paesi
considerati “più responsabili”. Ciò genera una subalternità dei centri di
potere continentali incapace di governare processi globali nell’interesse
comune.
I
costi della divisione
La
mancanza di un governo unitario forte, capace di generare sinergie tra i Paesi
membri, genera oltre ai costi della politica, anche altri costi altrimenti
evitabili. Tra questi: un costo economico, dovuto a inefficienze di produzione
e di mercato; un costo sociale, dovuto all’insostenibilità del welfare universale, e all’insufficienza
di meccanismi di retribuzione sovrannazionali; costi relativi alla sicurezza,
assurdi in quanto inseriti in un sistema inefficiente in termini di spese
militari e forze armate nazionali singolarmente inefficaci di fronte ad un
conflitto armato moderno; un costo istituzionale, dovuto al crescente grado di
sfiducia che gli europei nutrono nei confronti dell’UE; un costo in tema di
ricerca,dovuto al duplicarsi dei costi della ricerca portando avanti progetti
paralleli, identici e non coordinati sviluppati dai Paesi membri.
Necessità di una politica monetaria
unica
Di fronte
all’inefficacia dell’attuale sistema politico sovrannazionale europeo, ancora
troppo dipendente dai governi nazionali, la risposta non deve essere quella di
ritornare alle sovranità nazionali, ma rafforzare il governo e le istituzioni
di Bruxelles, metterle in primo piano e subordinare ad esse tutti i governi e
le istituzioni nazionali, arrivando - in definitiva - alla creazione di un
governo federale europeo. Per riassumere in un unico concetto: occorre
diventare da Unione Europea a Stati Uniti d’Europa.
La debolezza
principale che caratterizza l’attuale sistema dell’Unione Europea è la presenza
di un sistema di politica monetaria ambiguo e unico nel suo genere. L’euro
viene, infatti, distribuito dalla banca centrale al tasso di inflazione europeo
mentre i debiti pubblici nazionali vengono contratti ai tassi di interesse
nazionali. Questi ultimi sono però tenuti alti a causa di scarse valutazioni
delle agenzie di rating riguardo la probabilità di insolvenza
degli stati contraenti.
Proprio i tassi
di interesse troppo alti a livello nazionale sono la causa della progressiva
paralisi dei sistemi di welfarenazionali
che si trovano impossibilitati a contrarre debito pubblico per rilanciare
l’economia locale e per far fronte ai disagi sociali. Gli alti tassi di
interesse nazionali diventano essi stessi un fattore di moltiplicazione del
debito pubblico, con il rischio di farlo accrescere fino a livelli
insostenibili, generando così una crisi economica dagli esiti potenzialmente
letali, non solo per il singolo paese o per l’Europa, ma per tutti coloro che
possiedono ingenti quote di titoli non solvibili. Uno scenario questo che
genererebbe disastri a catena sul teatro finanziario globale e una recessione
dai caratteri apocalittici.
Questo difetto
sistemico può essere corretto accentrando totalmente la politica monetaria
nelle mani della BCE; questa soluzione permetterebbe così di contrarre debito
pubblico a livello europeo con un tasso di interesse più basso e sostenibile,
dovuto al maggiore grado di fiducia che le principali agenzie di rating nutrono
nei confronti della Banca Centrale Europea. Successivamente il debito contratto
verrebbe distribuito dalle istituzioni politiche europee agli enti locali
pubblici e ai privati in deficit dei singoli stati, seguendo parametri espressi
dall’Europarlamento, voce di tutti i cittadini dell’Unione.
Qualsiasi
politica di welfare che prescinda da
questo passaggio non può che risultare fasulla e chiunque la promuova lo fa per
ignoranza o in malafede.
Quando negli
anni ’90 si formulavano i parametri del Trattato di Maastricht e si progettava
l’unione monetaria si dava per scontato che fosse solo il primo passo verso
l’unione politica federale. Negli anni successivi all’entrata in vigore
dell’Euro, a causa di un periodo di crescita che stava attraversando l’Europa e
l’affermarsi di governi di destra conservatori e populisti nei principali Paesi
dell’Unione Europea, si arrestò il processo di integrazione poiché i governi
nazionali pensavano che in fondo la situazione andasse bene così com’era. La
crisi del 2008 e i successivi attacchi speculativi sui debiti sovrani dei Paesi
considerati strutturalmente deboli da parte delle principali banche mondiali,
ha evidenziato quanto in realtà questo sistema di cose risulti fragile e
inadeguato.
La soluzione è l’Austerity?
La politica di Austerity proposta da Angela Merkel
riflette l’opinione pubblica di gran parte dei tedeschi e dei Paesi del nord
Europa. In questi Paesi il concetto di debito è sinonimo di quello di colpa e
non è concepibile che i Paesi “colpevoli" debbano ricevere i loro soldi
senza prima avere espiato le proprie colpe tramite politiche di tagli della
spesa pubblica definite di “lacrime e sangue”.
Questa politica
è allo stesso tempo immorale e pericolosa.Immorale perché il governo tedesco
non ha diritto di dettare la linea di politica interna ad altri Paesi europei
ugualmente sovrani. Pericolosa per almeno due buone ragioni. I cittadini dei
Paesi in deficit perderanno fiducia nei confronti delle Istituzioni Europee,
rispolverando antichi rancori nei confronti della Germania. Questo
provocherebbe un’ulteriore divisione nel continente favorendo il consolidarsi
di partiti estremisti anti-europei di stampo populista, che rischierebbero di
pregiudicare il progetto europeo creando forti tensioni all’interno degli
stessi sistemi democratici nazionali. Inoltre la contrazione dei consumi
andrebbe a ridurre le stesse esportazioni tedesche, perlopiù rivolte
all’interno dei confini europei. Il risultato finale per la Germania sarebbe di
generare una decrescita che colpirebbe l’Europa intera, compresa se stessa.
Con i capitali
risparmiati grazie a sinergie di sviluppo economico e scientifico e con quelli
ottenuti grazie ad una potenziale emissione di titoli di stato europei da parte
della BCE stessa (i cosiddetti Euro-bond), il governo europeo avrebbe fondi
sufficienti per attuare politiche economiche istituzionalistiche di sviluppo
efficienti ed efficaci, se dirette da istituzioni bene organizzate referenti al
governo e dotate di una notevole autorità presso gli enti e i governi dei
singoli Paesi.
Si potrebbe
addirittura assistere ad un nuovo miracolo economico capace di fare recuperare
all’Europa la centralità internazionale persa con le due guerre mondiali.
L’Europa
Federale potrebbe diventare abbastanza ricca da promuovere una politica estera
capace di fare fronte ai problemi che la riguardano con maggiore autonomia ed
incisività, aumentando il proprio potere contrattuale per le importazioni di
gas e combustibili fossili. Questo consentirebbe inoltre di attuare politiche
di investimento nei Paesi del terzo mondo da cui provengono la maggior parte
dei flussi migratori migliorando le condizioni di vita dei popoli Paesi
coinvolti, ottenendo un’espansione della nostra sfera di influenza politica nel
mondo in modo del tutto pacifico e riducendo il flusso migratorio che non potrà
essere assorbito in eterno.
Inefficienza
dell’attuale sistema istituzionale.
Appare evidente
che l’Europa non funziona.
Non funziona, in
particolare, perché non funziona da un punto di vista politico-istituzionale.
E’ vero, i vari
trattati che si sono succeduti e che hanno caratterizzato la storia
dell’integrazione europea hanno il merito di aver permesso di creare e regolare
rapporti di varia natura tra i paesi che via via si riconoscevano nella
Comunità (che col trattato di Maastricht del 1992 diventa “Unione”).
Tuttavia non
sono riusciti a dotare la stessa Unione di un’efficiente sistema istituzionale.
A tal fine è stato stipulato nel 2007 il Trattato di Lisbona, con il desiderio, espresso nel Preambolo, «di completare il processo avviato dal trattato di Amsterdam e dal trattato di Nizza al fine di rafforzare l'efficienza e la legittimità democratica dell'Unione nonché di migliorare la coerenza della sua azione».
A tal fine è stato stipulato nel 2007 il Trattato di Lisbona, con il desiderio, espresso nel Preambolo, «di completare il processo avviato dal trattato di Amsterdam e dal trattato di Nizza al fine di rafforzare l'efficienza e la legittimità democratica dell'Unione nonché di migliorare la coerenza della sua azione».
I fatti
dimostrano, però, che si è ancora lontani dall’avverarsi di tale desiderio.
Dal punto di
vista dei contenuti, in realtà, il Trattato di Lisbona dimostra di voler
definire meglio i poteri delle istituzioni europee per rafforzarne l’efficienza
e la legittimità.
Il Trattato
recepisce, in particolare, gran parte delle innovazioni contenute nella famosa
Costituzione Europea approvata nel 2004 e mai entrata in vigore per la
bocciatura francese e olandese.
Così, ad
esempio, specifica meglio le ripartizioni delle competenze tra Unione e Stati
membri, distinguendo tra competenze esclusive, concorrenti e di sostegno;
afferma il principio di sussidiarietà, in base al quale l’Unione interverrà
solo se gli obiettivi che essa persegue non possono essere sufficientemente
raggiunti dagli Stati membri; introduce due procedure di revisione dei trattati
(una ordinaria e una semplificata) e la possibilità di recedere dall’UE.
Soprattutto,
inoltre, il Trattato di Lisbona modifica alcuni aspetti istituzionali.
In particolare,
il Consiglio Europeo è annoverato per la prima volta tra le istituzioni dell’Unione,
attribuendogli la funzione di organo di indirizzo politico e dotandolo di un
Presidente eletto ogni due anni e mezzo dai Capi di Stato o di Governo degli
Stati membri.
Ancora di
difficile inquadramento è, all’interno del Consiglio, la figura dell’Alto
Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza,
una sorta di Ministro degli Esteri dell’Unione.
Al di là di
questi aspetti (apparentemente solo) tecnici, bisogna domandarsi se l’Europa,
così come è congeniata, funzioni o meno.
La risposta non
può che essere negativa.
Troppe sono
ancora, infatti, le questioni rimaste aperte e che impediscono all’Unione di
porsi in modo chiaro e competitivo sulla scena internazionale.
Il quadro a
livello istituzionale è molto complesso: ai tre “classici” organi, il Trattato
di Lisbona ha aggiunto, come detto, il Consiglio Europeo, attribuendogli
funzione di indirizzo politico.
Se aggiungiamo a
ciò la grande importanza che viene data ai Parlamenti Nazionali (inseriti
stabilmente nelle procedure legislative dell’Unione), otteniamo un quadro assai
complicato.
Tale quadro, da
una parte rende più ponderate e controllate le decisioni ma dall’altra delinea
un sistema consociativo, idoneo più ad ostacolare che a facilitare queste
decisioni.
Collegata a tale
problematica – e non meno importante – è quella relativa al potere di
rappresentanza in seno all’Unione: chi rappresenta l’Europa?
Il Presidente
del Consiglio Europeo? O quello della Commissione Europea? E perché non l’Alto
Rappresentante?
Questo aspetto
non viene chiarito, ed è chiaramente sintomatico di quanto siamo ancora lontani
da una vera e propria Unione, per la quale non basta l’affermazione di una
personalità giuridica unica ma è necessario fare in modo che tale personalità
giuridica possa essere esercitata.
Siffatta
questione si riflette inevitabilmente sulla politica estera dell’Unione, non
bastassero i problemi che in questa prospettiva crea la divergenza tra il testo
del Trattato, che riconosce la soggettività internazionale dell’Unione e
l’istituzione di una figura incaricata di gestire la politica estera comune, e
quello della Dichiarazione annessa al Trattato, che contiene una serie di
precisazioni in difesa delle prerogative statali, prevedendo che le
disposizioni del Trattato non toccano responsabilità e poteri di ciascuno Stato
membro nella formulazione e gestione della propria politica estera e non
pregiudicano le sue relazioni con Paesi terzi e organizzazioni internazionali.
Quale Europa vogliamo?
Arriviamo, così,
alla “questione delle questioni”, alla problematica principale, che sta alla
base di tutto: quale Europa vogliamo?
La risposta a
questa domanda può seguire due opposte direzioni: da un lato vi è l’idea di
un’Europa come istituzione confederale, intergovernativa e prevalentemente (se
non esclusivamente) dedita alle questioni economiche; dall’altro vi è l’idea di
un’Europa politica (e quindi non solo economica) e federale.
La natura
attuale dell’Europa non sceglie nettamente nessuna delle due strade, mescolando
elementi federali e confederali, integrazione e cooperazione, metodo
sovranazionale e intergovernativo.
Appare
fondamentale, dunque, eliminare tale ambiguità, così da poter dare veramente un
senso ed un obiettivo all’integrazione Europea.
Se la risposta
alla domanda “quale Europa vogliamo?” è il presupposto per poter veramente
costruire qualcosa di efficiente ed efficace, presupposto di tale presupposto è
la consapevolezza di essere Europa (per poter “volere” ci vuole consapevolezza
di ciò che si vuole!).
Allo stato
attuale tale consapevolezza ancora è debole, ed è solo con essa che si potrà
costruire un’Europa che davvero non sia solo una regione geografica ma che
costituisca un soggetto unico a tutti gli effetti.
Insomma: o
l’Europa la facciamo, e la facciamo davvero, oppure siamo destinati a
scomparire, schiacciati dall’implacabile incedere della storia.
I
delegati dei GD Carrara ad Euro 2014,
Yuri
Ceragioli
Sirio
Genovesi
Luca Lorenzini.
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